

Le ragioni della difficile situazione economica della Germania, scrive Francesco Giavazzi sulle colonne de Il Corriere della Sera, suggeriscono qualche lezione anche a noi. Nei vent’anni dell’era Merkel, dal 2000 al 2019, la Germania ha ridotto gli investimenti totali (pubblici e privati) di quasi due punti di Pil. Alla caduta degli investimenti totali ha contribuito una contrazione degli investimenti pubblici: fra il 2018 e il 2022 (dati del Fondo monetario internazionale) la Germania è stata uno dei Paesi con meno investimenti pubblici: 2,7% del Pil, più o meno come in Italia, mentre in Francia e negli Stati Uniti erano vicini al 4%, in Svezia superavano il 5%. Con un capitale pubblico importante, investire meno del 3% del Pil significa non fare neppure la manutenzione. Così il capitale pubblico, già scarso, si deteriora.
Dopo la crisi finanziaria del 2008-09, Berlino ha introdotto leggi federali e statali sul freno all’indebitamento, ricorda Giavazzi. Leggi che hanno imposto ai deficit pubblici federali un limite dello 0,35% del Pil e ai Länder (le Regioni) bilanci in pareggio. Questo ha sì contribuito a portare il debito pubblico tedesco su una chiara traiettoria discendente, ma si è in parte trattato di un’illusione. Un Paese che non fa sufficienti manutenzioni vive alle spalle del suo capitale pubblico.
Dopo un po’ non ha più debito, ma i ponti e le strade non reggono e devono essere riparati o ricostruiti. La spesa non è stata ridotta: è stata solo rimandata. Segnali preoccupanti sugli effetti degli scarsi investimenti vengono anche dal settore delle telecomunicazioni. Questo vale anche per la spesa militare. La Germania spende per la difesa circa 1’1,5 per cento del Pil, la metà della Grecia, un punto meno della Francia e un po’ meno anche dell’Italia. Nella scorsa Legge di bilancio il parlamento di Berlino aumentò di circa 100 miliardi gli stanziamenti per ammodernare le forze armate. Ma per non violare la norma sui limiti al deficit, la spesa prevista, circa 100 miliardi, fu iscritta «fuori bilancio». Un trucco contabile durato poco perché la Corte costituzionale ha subito imposto al governo di ritirarla. L’Italia soffre di problemi simili. Per anni, anziché investire nella protezione del territorio, abbiamo finanziato pensioni di anzianità. Con il risultato che poi abbiamo dovuto spendere di più per fare fronte agli effetti delle alluvioni o di altri fenomeni naturali. Idem per gli edifici scolastici in cui non è stata fatta un’adeguata protezione contro i rischi sismici. Per il governo, che si accinge a scrivere la Legge di bilancio, si può così trarre qualche importante lezione, scrive Giavazzi. Intanto, fa bene il ministro dell’Economia a resistere alle pressioni per abbassare l’età delle pensioni. Ma fa malissimo a cercare di risparmiare tagliando gli investimenti pubblici. Quei tagli per lo più sono illusioni che presenteranno il conto dopo qualche tempo. Da quest’anno, con le nuove regole europee, la Legge di bilancio copre non uno, ma sette anni. E’ troppo chiedere, al ministro e al Parlamento, di alzare lo sguardo e scrutare un po’ più lontano? Ci sono misure che oggi costano, ma nel tempo si ripagheranno ampiamente. Ad esempio incentivi che consentano alle donne di lavorare, aiuti per le famiglie numerose e per i giovani che vogliono continuare a studiare. Il peso del debito pubblico sull’economia dipende non dal livello del debito in sé, tanto meno se espresso in euro, bensì dal rapporto fra debito e Pil. Un Pil che non cresce, o cresce ad un tasso inferiore al tasso di interesse che lo Stato paga sul debito, alza l’onere del debito quanto un disavanzo nei conti pubblici. Investire nell’istruzione per migliorare la qualità del capitale umano, e quindi la produttività, investire in incentivi a lavorare e a studiare fa certamente di più, per la riduzione del rapporto debito/Pil, di un aumento delle tasse per tagliare il debito.
Il mondo è cambiato, riflette Giavazzi: siamo entrati in guerra, contro la Russia e per il clima. Che cosa avremmo detto se, durante la Seconda guerra mondiale, le spese per la difesa fossero state limitate dal vincolo del pareggio di bilancio? Torna alla mente una vignetta. E’ l’anno 2050: un vecchio seduto sotto un albero morto parla a un giovane, in un paesaggio desertificato: «Una brutta notizia: la terra è morta. Ma c’è anche una buona notizia: il rapporto debito/Pil è appena sceso sotto il 60%».
Il rispetto dei parametri dei conti pubblici, sacrosanto, in Germania è diventata un’ossessione nazionale, iscritta nella Costituzione della Repubblica Federale.
Dopo la crisi dei mutui subprime, tra il 2008-09, e poi quella dei titoli degli Stati sovrani, nel 2012, in cui molti, addirittura nel governo tedesco, avrebbero voluto un’Italia paragonata alla Grecia, possibilmente fuori dalla moneta unica perchè il Belpaese era considerato troppo minaccioso e instabile con il suo debito fuori controllo, oggi la Germania è uno Stato con i conti in ordine e l’economia che è un disastro.
Un disastro perchè ormai in recessione tecnica e non più in grado di esprimere quel suo potenziale di motore della macchina economico/produttiva europea, che era stato fino a pochi anni fa.
Le cause sono molte, a partire dalla crisi dell’auto a motore a benzina, che sta cambiando il sistema produttivo, e dunque un Paese come la Germania, che ha milioni di occupati in quel settore, con filiere produttive e tecnologiche ad asso legate, che si estendono anche in Italia (altro motivo di crisi del nostro Paese). L’approvvigionamento energetico ormai costoso, la Cina mercato sempre più difficile, certo, queste sono alcune delle cause. Ma di base rimane il fatto che i tedeschi non hanno investito, non investono più, da anni ormai, e il risultato è un Paese tecnologicamente obsoleto, e chiunque faccia un giro nelle sue città e infrastrutture di trasporto se ne accorge. E’ un Paese che ha fatto eccessivamente la formichina, con un vero e proprio crollo degli investimenti totali negli ultimi vent’anni, e che ad oggi si ritrova a non poter neppure fare la manutenzione dell’esistente.
Investire rimane l’unica strada maestra per tornare a crescere domani. Certo, oggi costa, ma nel tempo tutto si ripaga, come per gli incentivi che sostengono l’occupazione femminile. Soprattutto alla luce delle nuove regole europee, in cui le leggi finanziarie non coprono uno ma si spalmano su sette anni, è possibile tornare a investire, soprattutto in infrastrutture, istruzione, formazione, non solo pensioni. E’ necessario per la competitività e il mercato del lavoro e la transizione digitale e green di un Paese che si reputa tra le economie più forti del mondo. Discorso identico, ovviamente, vale per l’Italia.
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