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Un’altra possibile via d'uscita dalla crisi economica europea

Daniel Gros, in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore, compie un'analisi su una possibile via d'uscita all'attuale crisi economica europea, esprimendo un punto di vista molto diverso rispetto al pensiero ormai dominante sia a Bruxelles che, in generale, nell'Ue.

E' idea alquanto diffusa, infatti, che siano gli investimenti la chiave per far ripartire il motore dell'economia europea. Non è un caso che la nuova Commissione, presieduta da Jean-Claude Juncker, abbia pianificato una strategia di ripresa tutta basata sul piano da 315 miliardi di investimenti in tre anni.

Daniel Gros ritiene il piano della Commissione “fuorviante”, sia per i termini troppo enfatici impiegati per promuoverlo sia per la struttura stessa del finanziamento proposto. Con l'euro-zona ormai avvitata in una recessione della quale non si intravede ancora una fine, non deve sorprendere che il discorso pubblico punti sugli investimenti di stimolo per la crescita: investimenti, sia pubblici che privati, che potrebbero ridare slancio ad una ripresa sostenibile che aumenti il capitale sociale e, di conseguenza, la produzione.

Gros sottolinea però che questo potrebbe anche non essere il caso dell'Europa. Le istituzioni pubbliche Ue si lamentano dell'esistenza di un grave “gap di investimenti”, portando a sostegno di questa tesi il deficit annuale di 400 miliardi rispetto al 2007. Un paragone che Gros ritiene sbagliato poichè è nel proprio nel 2007 che si è raggiunto il massimo della bolla del credito che ha poi portato allo sperpero di un elevato ammontare di investimenti. Un dato di fatto, che la Commissione riconosce nella documentazione portata a supporto del pacchetto Juncker, facendo notare come si dovrebbero usare gli anni precedenti all'esplosione del credito come riferimento per i livelli di investimenti oggi desiderabili. Dunque, in base a questa misura decisamente più realistica, l'attuale divario degli investimenti diventerebbe solo la metà rispetto a questo dato.

Eppure, neanche gli anni precedenti alla grande recessione possono rappresentare un punto di riferimento affidabile per l'odierna economia europea, in quanto esiste un dato fondamentale che è cambiato molto più repentinamente di quanto si voglia ammettere, e cioè le tendenze demografiche europee. La popolazione in età lavorativa dell'euro-zona è cresciuta stabilmente fino al 2005, ma se ne prevede un forte calo già a partire dal 2015; considerando che la produttività non ha registrato riprese, un numero inferiore di lavoratori non potrà che comportare tassi di crescita potenziali purtroppo decisamente bassi. Ma, un tasso di crescita più esiguo, significa anche che sarà necessaria una quota minore di investimenti per poter mantenere il rapporto capitale/output.

Pertanto, se la zona euro avesse mantenuto livelli d'investimento simili a quelli degli anni pre-crisi, si sarebbe registrato molto più capitale rispetto alle dimensioni dell'economia, il che secondo molti osservatori non sarebbe stato un male, dato che una quota maggiore di capitale dovrebbe sempre rappresentare un beneficio.

Tuttavia, non è detto che sia così: uno stock di capitale in perenne crescita in relazione alla produzione comporta rendimenti sempre più bassi e, di conseguenza, col passare del tempo, sempre più prestiti in sofferenza nel settore bancario. Esaminando le deboli condizioni del sistema bancario europeo ci si rende subito conto di come, un eccesso di accumulo di capitale, sarebbe un “un lusso che l'Unione Europea non può permettersi”, scrive Gros.

A questo punto, è normale chiedersi cosa possa fare il piano Juncker per poter ottenere, nel breve termine, un impatto positivo sugli investimenti complessivi. Un numero molto ampio di ricerche accademiche che si sono occupate delle determinanti degli investimenti, tende a concludere che la variabile più importante ed influente sia la crescita (o le aspettative di crescita), e che i tassi d'interesse svolgono al massimo un ruolo secondario. Di qui la conclusione che, naturalmente, sia davvero molto improbabile che la politica monetaria possa riuscire ad avere un impatto incisivo sugli investimenti.

Ed in effetti, dando uno sguardo ai mercati, ci si rende conto di come, nella maggior parte dei Paesi dell'Unione Europea, non vi sia un mancanza di finanziamenti disponibili. Quei paesi dove il credito potrebbe essere piuttosto scarso, sono quelli della periferia della zona euro, che rappresentano meno di un quarto dell'intera economia Ue; dunque, non è la mancanza di fondi il motivo per cui gli investimenti nell'euro-zona restano scarsi.

Secondo quanto previsto dal piano Juncker, tramite 21 miliardi di euro in finanziamenti comunitari si dovrebbe dare l'avvio a progetti pari a 15 volte questo valore. Parliamo di 315 miliardi, una cifra che Daniel Gros ritiene alquanto “inverosimile”, poiché il sistema bancario europeo ha già più di 1.000 miliardi di capitale e non si capisce perchè l'aggiunta di 21 miliardi di euro, sotto forma di garanzie a carico del bilancio comunitario, dovrebbe avere un effetto considerevole sulla propensione delle banche a finanziare gli investimenti.

Tra l'altro, il piano Juncker punta proprio su investimenti in progetti infrastrutturali che risultano essere spesso molto più rischiosi di altri tipi di investimenti non tanto per problemi finanziari, quanto per ostacoli di tipo politico e normativo a livello nazionale. Un genere di problema che non può di certo essere risolto con una garanzia a carico del bilancio comunitario, che non potrebbe essere comunque più grande di 1/15 del valore del progetto.

Per fare un esempio: se ancora non esiste un'affidabile interconnessione tra le reti energetiche di Francia e Spagna, non è per carenza di finanziamenti, quanto per la mancata volontà da parte dei governi di entrambi i Paesi di aprire i loro mercati e di abbandonare i monopoli dominanti.

Per non parlare della lentezza esasperante con la quale procedono i lavori di tanti progetti ferroviari e stradali europei, anche qui non a causa di assenza di fondi, ma per le proteste delle opposizioni locali. In Europa, quando si tratta di investimenti infrastrutturali, i veri ostacoli nascono a causa di questi limiti, che impediscono lo sviluppo di molti progetti. La questione fondi è davvero secondaria, considerando che le grandi aziende europee possono facilmente ottenere finanziamenti con interessi a tasso quasi zero.

Daniel Gros conclude osservando che la richiesta di maggiori finanziamenti è una proposta che riscuote, superficialmente, sempre molto successo. Eppure, tutto porta a credere che i tassi d'investimento nell'area-euro rimarranno bassi ancora per molto. Le vere barriere agli investimenti nell'Ue non hanno nulla a che fare con la mancanza di fondi.

Le economie di Regno Unito e Stati Uniti sono lì a dimostrarci che la ripresa è possibile ma che passa attraverso la ripresa dei consumi a carico di bilanci familiari più forti, com'è avvenuto soprattutto negli Usa. L'aumento degli investimenti è stato solo una conseguenza della ripresa della crescita dei consumi. E' un'importante lezione che i politici europei dovrebber tenere bene a mente: se non vi sarà prima una ripresa dei consumi, non potrà esserci una reale ripartenza dell'economia e, solo successivamente, anche degli investimenti.

 

 

 

 

Fonte:   Daniel Gros. Il Sole 24 Ore

 

 

 

 



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