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L’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: il successo degli ITS e la crisi del contratto di apprendistato

Non sono scuole. Non sono università. Stanno nel mezzo: due anni di formazione dopo il diploma. Teoria specializzata, subito messa in pratica.

Ed è proprio per questo che gli Istituti tecnici superiori, in breve Its, hanno tanto successo. Formano quei super tecnici di cui le aziende hanno disperato bisogno, ma che spesso non riescono a trovare.

In otto settori forti del made in Italy, dall'agroalimentare al turismo, passando per la meccanica.

Risultato? A un anno dalla fine degli studi quasi otto ragazzi su dieci, il 78,3%, hanno già trovato lavoro. Notevole, in un Paese in cui la disoccupazione giovanile rimane ben al di sopra del 40%.

La chiave è capire quali competenze sono strategiche per le imprese del territorio attraverso le Fondazioni a cui sono associate, oltre a scuole, università e associazioni di categoria, un buon numero di aziende.

Sono queste ultime che contribuito a definire i percorsi di studio proposti ai ragazzi e ad assicurare la maggior parte del corpo docente e che accolgono gli studenti in stage, per almeno il 40% del monte ore complessivo.

Tutto questo avviene in tutti i 75 Its d'Italia, con 350 diversi percorsi di studio attivati. Da quello per la mobilità sostenibile di Genova, che forma i futuri piloti di navi mercantili, a quello per le attività culturali di Vico Equense, provincia di Napoli, da cui usciranno, grazie a una convenzione con il colosso dell'informatica Cisco, programmatori di app per il turismo.

Un modello di formazione duale, come quello che in Germania accompagna i giovani nella transizione tra scuola e lavoro, ma che in Italia, complice lo scarso successo dell'apprendistato, non riesce a decollare.

Proprio il tasso di occupazione dei ragazzi è uno dei dati chiave per gli Istituti tecnici superiori il 10%dei fondi pubblici che ricevono infatti è legato all’efficacia della didattica, sulla base di una valutazione fatta ogni anno da Indire e dal ministero dell'Istruzione.

Una componente di premialità che il disegno di legge sulla Buona scuola, in discussione in Parlamento, prevede di portare al 30%.

Quest'anno 42 percorsi, sui 63 monitorati, si sono assicurati il bonus. Ma nonostante gli incoraggianti risultati delle prime classi diplomate, a cinque anni dalla loro creazione gli Its restano una ancora una nicchia, con appena 8mila giovani iscritti in tutta Italia.

 

D’altro lato, nonostante i ripetuti interventi normativi di aggiustamento, l’evoluzione dell’apprendistato si trasforma da canale privilegiato di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro a tipologia residuale.

Ad aprile (ultimi dati diffusi dal ministero del Lavoro), sono stati attivati appena 18.443 contratti di apprendistato, che rappresenta ormai il 2,4% dei nuovi rapporti di lavoro.

Il confronto tendenziale è ancora più nero: ad aprile 2014 erano stati avviati al lavoro 24.335 apprendisti (in un anno c’è stata una diminuzione di 5.892 contratti).

Ma il trend negativo dura da anni: nel 2010, complessivamente, l’apprendistato segnava 528.183 rapporti. Nel 2011 si è scesi a 492.490, e nel 2012 si è toccata quota 469.855, il valore più basso, secondo gli ultimi dati annuali del monitoraggio pubblicato dall’Isfol (si è in attesa dell’aggiornamento per il 2013).

Con l’entrata in vigore del consistente sgravio contributivo introdotto dalla legge di Stabilità per i contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2015, l’apprendistato sta scomparendo: a gennaio di quest’anno sono stati attivati 17.972 contratti. A febbraio si è passati a 15.559. A marzo gli apprendisti attivati al lavoro toccano quota 16.844, ma sono aumentate le attivazioni complessive, e il peso dell’apprendistato sul totale dei contratti si è fermato al 2,6%.

Ad aprile, come detto, si è ulteriormente scesi al 2,4% (i dati del ministero non considerano la Pubblica amministrazione, dove c’è il blocco del turn over, e il lavoro domestico).

Insomma, le tutele crescenti, agevolate dalla decontribuzione piena per tre anni, stanno cannibalizzando l’apprendistato, che sta lentamente scomparendo.

Un peccato, considerato come l’istituto dopo gli ultimi interventi normativi, sia rimasto oggi l’unico contratto «a contenuto formativo» nel nostro ordinamento.

Tali interventi, inoltre, hanno risolto solo in parte la complessità della normativa vigente, lasciando pendenti alcune criticità (prima tra tutti la burocrazia) che rappresentano un ulteriore freno all’appetibilità dello strumento da parte delle imprese.

Peraltro, il Dlgs di riordino dei contratti, che sarà discusso a breve dal Consiglio dei ministri, riscrive un’altra volta le regole sull’apprendistato, concentrandosi essenzialmente su quello di primo (per la qualifica e il diploma professionale) e di terzo livello (di alta formazione), traendo ispirazione dal sistema duale di alternanza tra scuola e lavoro considerato come una delle chiavi di successo della Germania.

Sul secondo livello, cioè il professionalizzante, non c’è praticamente nulla: questa tipologia contrattuale continua quindi a conservare le clausole di stabilizzazione introdotte dalla Fornero e non è previsto nessun ulteriore abbattimento dei costi.

Vale la pena ricordare che l’apprendistato è attualmente rivolto ai giovani tra i 15 e i 29 anni; le imprese fino a nove dipendenti hanno uno sgravio contributivo totale (devono pagare l’1,31% per l’Assicurazione sociale per l’impiego), quelle sopra questa soglia pagano in base a un’aliquota al 10% (oltre all’Aspi), e possono assumere l’apprendista inquadrandolo fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria di destinazione.

La strada per un apprendistato di qualità non può che passare da una riforma complessiva della formazione professionale e dal creare le condizioni per l’alternanza tra scuola e lavoro.

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