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Le multinazionali digitali si adattano alle nuove norme fiscali internazionali per il contrasto dell’evasione fiscale


La politica di contrasto alle politiche aggressive delle multinazionali condotta a tutto campo dall’Ocse e dall’Unione Europea e le ultime decisioni prese dai Governi dei principali Paesi danno i primi frutti concreti.

I grandi gruppi corrono ai ripari e cercano, anche giocando di anticipo, di riorganizzare la propria attività strutturandosi fiscalmente almeno negli Stati di maggiore interesse commerciale.

Una delle prime multinazionali che esce allo scoperto e decide di affidare a un comunicato (chiaro, ma laconico) la sua decisione è stato il colosso americano di Amazon che dal 1° maggio scorso opera su alcuni mercati (Italia, Spagna, Germania e Regno Unito e prossimamente in Francia) attraverso l’apertura di branches, articolazioni territoriali.

Uno dei primi obiettivi dell’Ocse è stato quello di intervenire con posizioni del tutto innovative proprio con riferimento agli attori mondiali della digital economy e più in generale della new economy.

Nei confronti di questi soggetti è stata revisionata in modo sostanziale la nozione di stabile organizzazione ed è stata ipotizzata la configurazione di nuove regole di funzionamento della tassazione di queste attività.

In questo percorso di rinnovamento una posizione importante l’hanno avuta le 15 azioni decise nell’ambito del Beps (Base erosion and profit shifting project) in cui proprio la prima è finalizzata a rinnovare l’approccio normativo e interpretativo per fiscalizzare in modo corretto le imprese e i gruppi di imprese che utilizzano la nuova tecnologia per realizzare la propria attività commerciale.

A settembre 2014 l’Ocse ha pubblicato le prime riflessioni sul tema e per ottobre 2015 si attendono le linee guida che dovrebbero orientare gli Stati e le amministrazioni finanziarie per governare in futuro il fenomeno.

Ritornando alla decisione di Amazon questa sembra da ricollegare al nuovo Draft Ocse sulla stabile organizzazione che ha rivisto il ruolo che l’esistenza di un deposito ha per un’impresa che opera nella new economy e che realizza prevalentemente il suo business tramite piattaforme elettroniche di e-commerce.

Nella nozione di stabile organizzazione recepita da molti ordinamenti occidentali tra cui l’Italia (si veda l’articolo 162, comma 4, lettera a del Tuir) l’esistenza di un deposito non costituisce di per sé una stabile organizzazione, in quanto il deposito solitamente viene considerata un’attività ausiliaria non rilevante ai fini dell’identificazione di una stabile organizzazione. Al contrario, il draft Ocse rivede la nozione in riferimento alle imprese della new economy costituendo, di fatto, una struttura essenziale per la realizzazione della propria attività commerciale. Si pensi all’importanza che un deposito ha per una società di ecommerce che per avere successo deve essere in grado, tra l’altro, di consegnare il prodotto su tutto il territorio di uno Stato con una rapidità quasi “sbalorditiva”.

Quindi la scelta di Amazon di aprire posizioni fiscali, potrebbe essere proprio la conseguenza delle nuove regole in gestazione.

Su questo tema, occorre segnalare che le indagini della Guardia di Finanza sulla presunta evasione fiscale di Google Italia si allargano all'Irlanda.

Secondo i magistrati di Milano la società di Mountain View avrebbe dovuto versare imposte per un imponibile di 800 milioni di euro tra il 2008 e il 2013 ma avrebbe presentato dichiarazioni fraudolente.

Nelle scorse settimane sembrava essere stato raggiunto un accordo per il pagamento da parte del gruppo californiano di circa 320 milioni di euro ma l'intesa è saltata. Ora le indagini valicano i confini italiani con l’obiettivo di identificare a quali società del gruppo sarebbero imputabili alcuni redditi.

Le controllate di Google in Europa, Africa e Medio Oriente, infatti, dipendono da una società irlandese.

Il sistema messo a punto dal gruppo californiano per ridurre il carico fiscale complessivo si chiama “double irish dutch sandwich”.

In pratica, i ricavi della vendita di pubblicità in Italia arrivano direttamente nelle casse della società irlandese dove dovrebbero essere tassati al 12,5%.

La società irlandese, però, dirotta gli incassi alla sua controllante domiciliata in Olanda, sotto forma di pagamenti di royalties per lo sfruttamento della proprietà intellettuale.

Quest’ultima, infine, gira i ricavi a un’altra società irlandese, sempre a titolo di royalties.

La società irlandese posta in cima alla catena è domiciliata fiscalmente alle Bermuda, dove le imposte sui profitti aziendali sono pari a zero. E il gioco è fatto.

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