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Documento economico di finanza (Def 2016)

Meno crescita, 1,2% quest'anno rispetto all'1,6 previsto a dicembre, e 1,4% nel 2017. Blocco del deficit all'1,1% con la riserva di disinnescare la clausola di salvaguardia da 15 miliardi nella prossima legge di Bilancio e portare il rapporto all'1,8%, come informalmente concordato con Bruxelles proprio negli ultimi giorni, dopo un braccio di ferro durato mesi e dopo i ripetuti “no” della Ue. Questi i punti principali contenuti nel Documento economico di finanza, come riportato su La Repubblica da Alberto D'Argenio e Roberto Petrini.

Crescita, debito e inflazione sono le tre sfide del Def di quest'anno, sottolinea Dino Pesole su Il Sole 24 Ore. Infatti, all'interno di un quadro programmatico che certamente subirà inevitabili oscillazioni da qui a settembre (con la Nota di aggiornamento del Def) nelle variabili fondamentali (Pil, debito e deficit), la scommessa del governo si gioca di base su quei tre fronti. E dunque: provare a spuntare consistenti margini di flessibilità in sede europea anche per il 2017; garantire che la discesa del rapporto debito/Pil, attesa già per fine anno, consolidi dal 2017 il suo percorso; spingere l'acceleratore sul versante della domanda così da raggiungere un target di inflazione “sufficiente” a sostenere la riduzione del debito.

Sul fronte della flessibilità, la trattativa in corso ha portato ad un punto di sintesi in attesa del passaggio di metà maggio, quando la Commissione Ue dirà la sua sulla legge di Stabilità del 2016. Sul piano dei conti pubblici, ed in virtù dell'accordo informale raggiunto a Bruxelles, l'Italia potrà chiudere il 2016 con un deficit al 2,3% del Pil, numero che comparirà nel Def e che sarà centrato grazie all'aggiustamento amministrativo previsto per l'assestamento di bilancio di giugno da circa 2 miliardi pari a un decimale di disavanzo. Si aprirebbe così la strada al finanziamento per circa 5 miliardi del taglio delle tasse. Un tipo di operazione che, nelle intenzioni del governo, passerebbe principalmente attraverso l'anticipo al 2017 di una prima tranche di riduzione dell'Irpef. Per questo, Palazzo Chigi è pronto a mettere in campo l'effetto delle riforme in via di piena attuazione (tra cui, la riforma della Pa e la stessa riforma costituzionale attesa in ottobre alla prova del referendum), invocando al tempo il ricorso alle “circostanze eccezionali” per le spese relative alla sicurezza e all'emergenza migranti. Negli scorsi giorni lo staff del ministro Padoan ha anche chiuso con Bruxelles l'accordo informale sul 2017 inseguito da mesi. Roma, il prossimo anno, dovrebbe abbassare il deficit all'1,1%, con una manovra monstre da 19 miliardi. Dopo lunghissimi negoziati, l'intesa informale prevede una flessibilità dello 0,7%, pari a 11 miliardi con il risanamento che potrà fermarsi all'1,8%. Secondo le regole Ue, la flessibilità può essere data per un solo anno (e l'Italia nel 2016 ne ha portata a casa 0,9%, 14,5 miliardi) e dunque l'anno prossimo lo sconto non sarà accordato grazie a riforme e investimenti, ma riconoscendo una serie di circostanze eccezionali (come migranti e sicurezza) e probabilmente con una revisione di alcuni parametri tecnici come il calcolo della crescita potenziale (output gap), che secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) vale lo 0,15%.

Ma la precondizione assoluta è far sì che il debito, in aumento ininterrotto ormai da otto anni, si riduca quest'anno al 132,4% rispetto al 132,6% del 2015. Ed è qui che entra in gioco la terza variabile, ossia la crescita che, per l'anno in corso, sarà indicata all'1,2% rispetto all'1,6% delle stima precedente. Revisioni al ribasso si prevedono anche per il 2017, rispetto all'1,6% stimato dal quadro macroeconomico programmatico del settembre scorso? A questo punto, molto dipenderà proprio dall'esito della partita sulla flessibilità con Bruxelles. Davvero molto poco si potrà fare, invece, sulla componente della minor crescita dovuta in gran parte al simultaneo interagire di variabili tutte esogene e particolarmente negative, a partire dal rischio contagio provocato dal rallentamento della Cina.

Una delle più grandi preoccupazioni rimane l'andamento dei prezzi: per la Commissione quest'anno l'inflazione non supererà lo 0,3%, un target decisamente lontano da quel 2% cui sta tendendo da tempo la Bce con la sua politica monetaria espansiva. Nel Documento economico di finanza il livello di inflazione indicato dovrebbe raggiungere lo 0,7-0,8 totalizzando una crescita del Pil nominale intorno al 2%. Previsione che metterebbe al riparo la diminuzione del debito che si calcola in relazione al Pil nominale (cioè inflazione compresa). Nei giorni scorsi l'Upb aveva suggerito al governo di non eccedere con il tasso d'inflazione visto il calo dei prezzi di materie prime e petrolio. Anche il governatore di Bankitalia, Visco, ha osservato che in molti contratti di lavoro c'è una clausola anti-aumenti che prevede riduzioni dei salari in caso di ulteriore calo dell'inflazione. Una pratica “generalizzata” che porterebbe ad un “significativo calo dei salari riflettendosi sulla dinamica dell'inflazione”.

Intanto, tra la fine del mese e maggio, si prevede che il governo emani un decreto per imprese e crescita, per ridare fiato alla ripresa: un provvedimento che, secondo Padoan, dovrebbe dare un impulso dello 0,2% al Pil attraverso l'azzeramento della tassa sui capital gain per chi investe in piccole e medie imprese, l'introduzione di conti-titoli mirati a favorire gli investimenti nelle non quotate con sconti fiscali sul modello dei venture capital trust ed il rafforzamento degli sgravi sugli utili reinvestiti.

Insieme al Def, è passato anche il Programma nazionale di riforma (Pnr), entrambi da notificare a Bruxelles. Il documento parla di una spending review di 2,7 miliardi nel 2017 e 2,8 nel 2018. C'è poi l'impegno a privatizzare Fs, Enav ed altre società pubbliche per un valore dello 0,5% del Pil annuo nel triennio 2016-2018 e dello 0,3% nel 2019.

Il Def ha un merito: l'ottimismo sfrenato che si accompagnava in questi mesi a tutti i proclami in arrivo da Palazzo Chigi, è stato sostituito da un tono più sobrio. Ferdinando Giugliano, su La Repubblica, analizza il Documento di Economia e finanza rilasciato in questi giorni dal governo mettendone in evidenza la buona dose di realismo in esso contenuto, quando ad esempio si tagliano le previsioni di crescita ad appena l'1,2%, dunque con cifre solo marginalmente superiori rispetto a quelle che si aspettano gli economisti del settore privato: le difficoltà dell'economia mondiale, oltre ad un raffreddamento della fiducia di famiglie e imprese in Italia, dovrebbero oggettivamente rallentare la ripresa in modo marcato, rendendo più complesso anche il nostro quadro di finanza pubblica. Giugliano, nella sua analisi, mette però in evidenza come una maggiore dose di realismo non basti ad eliminare del tutto le inconsistenze del Def. In primo luogo, il governo avrebbe dovuto essere più esplicito nel misurare l'impatto dei molti pericoli che si annidano nei prossimi mesi: sia la possibile uscita della Gran Bretagna dall'Ue che un possibile aggravarsi della crisi bancaria che da mesi attanaglia l'Italia potrebbero avere ripercussioni negative sulla nostra domanda estera e interna. Il Def include anche un'analisi dei rischi esterni, ma si tratta di una sezione piuttosto scarna alla luce dell'incertezza che domina quest'anno. L'aspetto meno plausibile delle previsioni riguarda l'andamento delle importazioni. Come ammesso dallo stesso Def, negli ultimi mesi vi è stata una crescita continua dei prodotti che compriamo dall'estero, con un rallentamento dell'export. Colpa, forse, anche dei bonus fiscali regalati dal governo, che hanno portato gli italiani ad acquistare, tra gli altri, più mezzi di trasporto (+15,7% su base annua) e apparecchi elettrici (+9,5%) provenienti da altri Paesi.

I tecnici di via XX Settembre hanno radicalmente abbassato le loro previsioni per la crescita dell'import per il 2016, a fronte di una previsione di una crescita dei consumi sostanzialmente invariata. Questi numeri sembrano sottostimare il rischio che la spinta che dovrebbe arrivare dalla domanda interna possa finire per lo più all'estero, ponendo un ulteriore freno alla nostra crescita. In effetti, il problema forse più grande dell'Italia, su cui il governo sta facendo ancora troppo poco, rimane quello della competitività. La scelta di entrare nell'euro ha spuntato l'arma delle svalutazioni competitive, almeno dei confronti degli altri Paesi Ue. Dunque, l'unica strada per guadagnare in competitività è quella di far crescere la produttività del lavoro, evitando che i salari salgano senza che quest'ultima aumenti. Motivo per cui, contrariamente a quanto affermato dal segretario della Cgil Susanna Camusso, il governo dovrebbe muoversi rapidamente per spostare tutta la contrattazione dai tavoli nazionali alle aziende, invece di limitarsi alle porzioni dello stipendio legate alla produttività. In tal modo, i salari sarebbero davvero legati all'efficienza aziendale, con conseguenze positive su competitività e occupazione. Un salario minimo sufficientemente alto potrebbe tutelare i lavoratori più deboli da possibili abusi.

Altra priorità per far ripartire la produttività italiana è una forte accelerazione degli investimenti, come sottolineato anche dall'ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, su Il Messaggero: “Solo investendo nelle imprese si ottiene più crescita”. Purtroppo, le tabelle del Def mostrano ancora una volta una revisione al ribasso della spesa in nuovo capitale, sia per quanto riguarda il dato del 2015, sia per la previsione del 2016. E' importante che, in uno scenario di maggiore incertezza internazionale, che rende le aziende più preoccupate, lo Stato intervenga per trovare le risorse per una maggiore spesa in investimenti, finanziandoli tagliando la spesa corrente.

Di questo, nel Def, si vede molto poco: il governo prevede che gli investimenti fissi da parte del settore pubblico, espressi in percentuale al Pil, resteranno fermi nei prossimi anni al 2,3% del Prodotto interno lordo segnato già nel 2015. In un quadro che prevede una diminuzione progressiva della spesa corrente, il governo potrebbe fare qualcosa in più.

A fronte di tali priorità, anche l'accesa discussione politica su quanto deficit farà l'Italia nei prossimi anni perde di importanza. Il compromesso raggiunto con la Commissione, con un disavanzo previsto per il 2017 dall'1,1% all'1,8%, appare abbastanza ragionevole. Come ha spiegato lo stesso Padoan, l'Italia si muove su un sentiero stretto, tra il rischio di aumentare il debito – diventando così più vulnerabile agli attacchi della speculazione – e quello di imporre una stretta fiscale controproducente, visto che una manovra correttiva troppo severa in autunno comporterebbe il pericolo di far ripiombare il Paese nella spirale recessiva.

La questione non è più tanto quanta flessibilità ci viene concessa, ma come la utilizziamo: ad esempio, la promessa di Renzi di estendere il bonus fiscale degli 80 euro a chi riceve una pensione minima rischia, come tutti gli incentivi al consumo, di aiutare molto di più il governo nei risultati delle imminenti elezioni amministrative invece che la crescita economica. Sarebbe bene, conclude Giugliano, che il maggiore realismo contenuto nel Def cominci a guidare anche gli annunci del governo.



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