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Disoccupazione, analisi e dati critici

In Italia la disoccupazione è tornata a salire lievemente nel mese di febbraio. Secondo gli ultimi dati Istat, scrive Mario Sensini su Il Corriere della Sera, il tasso dei senza lavoro è salito all'11,7%, lo 0,1% in più su gennaio. A febbraio, dunque, si contano 7mila disoccupati in più, tutti di sesso maschile visto che tra le donne la disoccupazione è diminuita, ma soltanto perché quasi 50mila di loro, scoraggiate, hanno rinunciato a cercare un impiego. Ma su questo torneremo più avanti. E' intanto importante sottolineare come almeno la disoccupazione giovanile sia scesa al 39,1%, in calo dello 0,1%. Allo stesso tempo, si registra un calo di 97mila unità tra gli occupati (92mila a tempo indeterminato) rispetto a gennaio. Un effetto provocato, secondo le analisi critiche dei sindacati, dalla riduzione degli sgravi contributivi sulle nuove assunzioni. La fine degli incentivi pieni alle assunzioni stabili (ora ridotti al 40%) ha provocato delle ripercussioni, che l'Inps aveva già registrato a gennaio, e che si ripropongono anche nel mese di febbraio, riprese sempre dall'Istat.

Dopo l'euforia di fine anno, scrive Valentina Conte su La Repubblica, con la corsa delle aziende a siglare contratti a tutele crescenti, magari anticipandoli, l'alta marea si ritira, lasciando dati di riflusso: negativi, certo, ma che compensano il picco di dicembre (colto a gennaio dall'Istat), riportando così la situazione a com'era prima dell'exploit.

Ma, dunque, si può dire che l'occupazione sia migliorata oppure no? Nell'ultimo anno, senza dubbio. La dinamica è positiva - come ha affermato anche il ministro Poletti - sia osservando i dati amministrativi dell'Inps (il numero dei contratti), sia quelli di stock dell'Istat (il numero di lavoratori occupati). Il bollettino diffuso in questi giorni parla di 96mila occupati in più, frutto però di 15mila aggiuntivi fino a 34 anni, ben 206mila in meno tra 39 e 49 anni e 286mila in più over 50. Ciò significa che il trend è positivo, ma che la forza lavoro invecchia, inesorabilmente, a discapito della fascia d'età centrale, vessata dalla distruzione di posti. A febbraio, invece, come si è visto, il quadro si è fatto più fosco: i 97mila occupati meno di gennaio (quando l'Istat ne registrava +73mila), come sopra riportato, sono soprattutto lavoratori dipendenti e con contratti stabili (mentre gli autonomi un po' recuperano). Siamo di fronte al primo calo dei tempi indeterminati da gennaio 2015, da quando cioè sono partiti gli sconti.

Guardando ai numeri dei soli occupati stabili (cioè a tutele crescenti), a febbraio scendono di 92mila, ma a gennaio salivano di 98mila. A conferma che il tracollo di oggi neutralizza il boom di ieri, tornando sui valori di dicembre. E' giusto chiedersi come mai l'Istat segnalasse una certa effervescenza a gennaio (con il conseguente reflusso di febbraio), quando invece i bonus sono scaduti a fine 2015: la spiegazione è che le statistiche si basano su interviste faccia a faccia (per il 40%) e telefoniche (60%) su famiglie estratte a campione. E così, l'esplosione di assunzioni negli ultimi giorni di dicembre, per non perdere gli sconti, viene raccontata e formalizzata solo nel mese di gennaio. Con un mese di ritardo rispetto all'Inps, che si avvale invece delle dichiarazioni obbligatorie dei datori di lavoro, inviate in tempo reale all'istituto di previdenza quando si apre una nuova posizione lavorativa.

A questo punto, solo dai dati di marzo si potrà realmente capire la direzione di marcia dell'occupazione per quest'anno, con sgravi ridotti ed un mercato un po' meno “drogato”.

Un altro tracollo dovrebbe preoccupare il governo; una tenuta sarebbe invece in linea con un'economia in lieve ripresa. Di sicuro il costo del lavoro nel 2015 è diminuito (salario e contributi), nel nostro Paese più che altrove in Europa, come segnalato da Eurostat: 28,1 euro all'ora (il secondo maggior calo, -0,5% sul 2014) contro i 29,5 euro medi dell'Eurozona (+1,5%). Meglio di noi solo Cipro (-1%). La Germania è a 32,2 euro, la Francia a 35,1, la Spagna a 21,2.

“Siamo partiti da una disoccupazione al 13%, ora siamo all'11% e qualche cosa. E' una discussione irreale: da una parte c'è la realtà dei fatti, dall'altra le polemiche” ha tagliato corto il premier, Matteo Renzi, che punta ad una manovra espansiva anche per il 2017 con il Documento di finanza pubblica, ritoccando verso l'alto l'obiettivo di deficit pubblico concordato con l'Ue. Oltre ad una revisione al ribasso della crescita dell'economia, che dall'attuale 1,6%, sarebbe portata all'1,3-1,4%, il Def fisserà anche l'obiettivo dell'indebitamento ben oltre l'1,1% indicato negli ultimi documenti ufficiali. Secondo alcune fonti il deficit del 2017 potrebbe arrivare anche all'1,8% rispetto al Pil.

Tuttavia, questi non sono gli unici dati poco ottimistici in arrivo. Maurizio Ferrera, su Il Corriere della Sera, nella fotografia del mercato del lavoro diffusa dall'Istat in questi giorni mette in evidenza, oltre alla diminuzione degli occupati e all'aumento degli inattivi, un fenomeno particolarmente preoccupante per il nostro Paese, ossia quello riguardante l'occupazione femminile, che risulta essere ferma. O peggio. Come infatti accennato poc'anzi, nel mese di febbraio quasi 50.000 donne sono diventate inattive per “scoraggiamento”. Per le donne il problema è doppio poiché non solo è difficile trovare un posto di lavoro, ma è ancora più complicato riuscire a conciliare esigenze familiari ed un eventuale impiego. Le donne che restano intrappolate nella famiglia sono 2,3 milioni: il 40% possiede un diploma superiore o una laurea, rappresentando così uno spreco enorme di abilità e talenti. E questo avviene soprattutto al Sud, dove risiede quasi la metà delle scoraggiate. E' da tempo ormai che si discute dei circoli virtuosi del lavoro femminile. La Banca d'Italia stima che se il nostro Paese avesse il tasso di occupazione medio Ue, il Pil farebbe un balzo in avanti di 7 punti. Eppure, niente.

E' vero che l'Italia ha una struttura produttiva peculiare, essendo fondata sulle piccole imprese, dove una maternità può creare seri problemi, con in più un'economia dei servizi ancora poco sviluppata. Ma è anche una questione di cultura sociale, con pregiudizi e stereotipi di genere, così come pratiche discriminatorie, purtroppo ancora molto diffusi e radicati. Ma il vero, grande problema delle donne lavoratrici in Italia è ancora la conciliazione. Mancano i servizi che permetterebbero a madri e figlie di “esternalizzare”almeno in parte il lavoro di cura. Questo vale soprattutto per l'assistenza agli anziani, sempre più longevi ma spesso non più autosufficenti. Le famiglie che si prendono cura in modo continuativo e diretto di un parente anziano sono il doppio rispetto alla Svezia.

L'eventuale presenza di figli, poi, aumenta il carico in modo esponenziale. Dopo la maternità, una donna su quattro rinuncia al lavoro. I padri (quelli giovani) hanno cominciato a collaborare rispetto al passato, ma il tempo di cura delle donne rimane ancora più del doppio rispetto a quello dei loro partner.

Di sicuro, promuovere in modo serio l'occupazione femminile ha i suoi costi: c'è bisogno di finanziare servizi sociali, congedi parentali (compresi quelli dei padri), incentivi fiscali e così via. Non deve necessariamente fare tutto lo Stato, visto il contributo significativo che può dare anche il secondo welfare, capace di mobilitare risorse private. Ma, analizza Ferrera, è importante non farsi illusioni e comprendere che i fondi pubblici sono fondamentali, senza contare l'importanza di una regia da parte del governo.

A metà degli anni Duemila, alcune lungimiranti ministre si occuparono di delineare un'”agenda donne”, diventata poi una sorta di fiume carsico della politica italiana: scompare e riappare, ma anche in quest'ultimo caso non riesce mai a dare i frutti sperati, rimanendo solo parole sulla carta, con l'accompagnamento del solito ritornello, ossia che i vincoli di bilancio non lo permettono. Eppure, per altri scopi – meno virtuosi – le risorse sono state trovate, come gli svariati miliardi di euro per le famose deroghe pensionistiche e per tagliare le imposte sulla casa. Così, l'”agenda donne” è di nuovo scomparsa, una scelta che contrasta decisamente non solo con le politiche attuate in altri Paesi, ma con le stesse raccomandazioni di Bruxelles.

Favorire la conciliazione e, dunque, l'occupazione femminile sarebbe un investimento enorme per il futuro dell'Italia. Infatti, promuovere il lavoro delle donne comporta un aumento della prosperità e, col tempo, crea nuovi posti di lavoro. Inoltre, è dimostrato come la frequenza di asili nido e scuole materne di buona qualità, consentirebbe ai nostri figli e nipoti di realizzare, un domani, tutto il loro potenziale. Non solo: l'investimento in servizi genera anche benefici immediati, visto che il reddito della famiglia aumenta, con le donne che finalmente possono realizzare la loro doppia aspirazione, ossia essere al tempo stesso madri e lavoratrici.

Dunque, com'è possibile che la politica sia sorda a tutto questo e non decida di impegnarvisi seriamente? E' un caso abnorme in Europa, denuncia Ferrera, di miopia collettiva, di autolesionismo, che andrebbe risolto in tempi brevi.

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